Eugenio Turri e la Villa Veneta


EUGENIO TURRI, VILLA VENETA

Bertani Editore, Verona 1977

Pp. 21-79


La villa veneta non era solo un luogo di villeggiatura. Unità produttiva e dimora di rappresentanza per le famiglie nobili e della ricca borghesia, coi suoi saloni, le imponenti facciate, i giardini curati ha custodito per secoli un mondo ricco e – agli occhi del popolo che ne era escluso dagli alti mura di cinta che delimitavano i suoi spazi – impenetrabile. Nel racconto di Eugenio Turri, geografo e storico, tutto questo crollò improvvisamente con la guerra e le novità che seguirono. Simbolo di tutto questo, le squadriglie di luccicanti bombardieri provenienti dall’America. Non più così lontana, ma prossima e incombente col suo travolgente stile di vita.


I progni e le poiane

Prima che arrivassero i bombardieri e la guerra, la gente del brolo viveva come ignara che esistesse un mondo diverso da quello delle colline. Il brolo, con i campi, le macchie di roveri e di robinie, le case isolate dei lavorenti seminascoste tra le nogare e vecchi siresari formava un territorio esteso, che aveva al suo centro la villa, i cui possessi si estendevano fin sulle alte colline e nell’ampio fondo valle. Era un ambiente di colline che pareva aver tutto, dolce e accogliente, e non per nulla i signori se l’erano appropriato da secoli, costruendovi la loro villa grandiosa.


Il palazzo

Vi era una porticina di servizio che si poteva aprire facilmente e di là si poteva penetrare nel palazzo e perlustrare silenziosamente i grandi saloni,i corridoi, le camere signorili, le cucine, i guardarobe, le segrete stanze del conte e della contessa, seguendo la topografia tante volte illustrata dai nostri genitori e dalle serve. Il palazzo era immenso, pieno di oggetti superflui, di cose antiche e lussuose, di cose morte e inutili come fosse un unico grande museo. Grandi quadri appesi ovunque alle pareti: ritraevano personaggi della nobile dinastia, uomini imponenti nella penombra, donne con vestiti ricamati, facce silenziose orinai dissolte nel buio delle cappelle funerarie.

I quadri più grandi e famosi ornavano i due grandi saloni che occupavano il pianterreno e il piano alto di tutto il corpo del palazzo.

Erano i saloni per i ricevimenti. Panche barocche finemente dipinte stavano ai lati, al centro pendevano grandi lampadari di cristallo; e vi erano poi specchi, mobili antichi, una statua di donna nuda.

Di donne nude ve n’erano altre, dipinte: vaporose, molle mente distese sui cuscini, con i seni piccoli, tondi e rosei della pittura veneziana. Ai lati del grande corpo centrale si affiancavano, leggermente arretrati, due corpi simmetrici, a loro volta fiancheggiati da due ali, edifici più bassi, lunghi, simmetrici anch’essi, con terrazze orlate di statue e balaustre. Alle estremità del complesso sorgevano le due colombare, alte torri con quattro obelischi sommitali.

Le due colombare erano vuote e davano asilo alle siete, agli allochi, e a nugoli di signàpole; alla base di una di esse c’era una grande voliera dove in passato i padroni tenevano ogni sorta di uccelli.Nei corpi laterali del palazzo c’erano le stanze con le loro funzioni particolari, oltre alle cusine e alle camare della servitù. Delle due ali del palazzo, una era destinata all’istà, all’estate, l’altra alla residenza nelle stagioni autunnale e invernale.

La residenza estiva era un poco incavata nel dorso della collina, più fresca e riparata dal sole, quella invernale ben esposta a mezzogiorno.

Il padiglione estivo dove c’era anche la forestaria per gli ospiti, era il più fastoso: con i più bei mobili, i migliori quadri, la grande stanza da bagno con tutti

gli aggeggi più moderni (vasche, vaschette, lavandini lustri) ignorati del tutto nell’ambiente contadino, dove c’era solo il cesso nei cortili, sopra i luamari.

Nel padiglione invernale, poco sfruttato data l’abitudine dei signori di risiedere in città, la stanza più curiosa era quella detta delle “dodici belle”.

Le dodici belle erano dipinte sulle pareti: affascinanti donne che erano state le dodici amanti del costruttore della villa.


Le fabbriche

Museo non era soltanto il palasso; anche nel brolo vi erano tante cose vecchie e inservibili, che appartenevano all’archeologia dei secoli andati,

testimonianze di un passato che aveva toccato i limiti della civiltà signorile, innestata sulle prime rudimentali tecniche industriali, sostenute da un capitalismo che,

come altrove nel Veneto, aveva cercato di costruire qualcosa di nuovo.


La chiesa e i preti

Nel cortile interno della villa la chiesa era il sacrario dei nobili signori. Era stata costruita anch’essa dal capostipite, perché villa e chiesa ovunque nel mondo veneto signorile coesistevano legittimamente.

Ma questa era più grande e monumentale di tutte le chiese che si trovavano nelle ville dei dintorni, come a perdono delle grandi libertà del suo costruttore. Sorgeva su un rialzo della collina e vi si accedeva per una grande e monumentale scalinata che si divideva in due rampe simmetriche. All’interno vi erano le lapidi dei signori defunti e, in prima fila, vicino all’altare, un artistico inginocchiatoio con cuscini rossi ricamati d’oro, posto di preghiera riservato alla contessa e ai signori.

Poco dietro stavano le sedie riservate ai castaldi e, infine, alle spalle, le panche per la gente contadina, done e laorenti.


Le case dei bacani

Anche le case dei lavorenti erano un'altra cosa dal palasso.

La cusina era il locale in cui si viveva: si mangiava, si chiacchierava, si svolgevano i lavori domestici delle donne. Una scala in legno ripidissima portava alle camere, che erano spoglie, poverissime, con le collane d'aglio attaccate alle travi. La stalla, anche nelle case molto vecchie, era parte integrante della casa.

La castalderia, nel cortile dietro il palazzo, si staccava dalle case dei lavorenti. Era grande, con una cucina immensa, dal soffitto di neri travi, un tavolo di noce per venti persone.

Accanto alla cucina vi era il tinel usato come ufficio da mio padre: vi teneva i registri, le carte che riguardavano l'amministrazione dell'azienda, i soldi che ogni sabato dava ai salariati.

Ogni tanto ci andavano i lavorenti a fare i conti. Mio padre doveva fare i suoi doveri di dipendente, badando agli interessi del padrone, ma anche cercando di dare una mano ai contadini, parecchi dei quali erano molto poveri.

Lavoro difficile che non riusciva mai a lasciare soddisfatte le due parti, ma che mio padre svolgeva con pazienza e comprensione. Per questo i lavorenti avevano per lui un gran rispetto: un bonomo, dicevano.


I poareti

Nel brolo entrava sempre poca gente da fuori. Vi era in tutti una sorta di timore, di disagio a varcare l’ingresso della villa, guardato da una casante, la Bieta, e sempre con il cancello chiuso.

Anche la gente del vicino paese entrava di rado dentro le mura. Il padrone dava ordine alla casante di non fare mai entrare gente sospetta.

Non voleva soprattutto che entrassero i poareti, i mendicanti, la gente che cercava la carità, e i séngali soprattutto, gli zingari.

Ma di zingari non ne entrarono mai nel brolo. Entravano invece i moleta coi loro trabiccoli, i spassacamini tutti neri infrusiné, i mercantini, venditori.

Tra i mendicanti che si facevano vedere più spesso c'era Bepo la Fame.

Raccontava storie incredibili di fantasmi che diceva di vedere sui monti; gli era anche apparsa la Madonnina, la Madonna della cintura, una volta.

Nel brolo entrava sovente anche el Mano, un misantropo che girava sempre sui monti; dormiva anche lui nelle teze e si guadagnava da vivere suonando la fisarmonica in occasione di matrimoni e cercando fonghi che andava poi a vendere ai signori, che ne erano golosi.

Tra i girovaghi che varcavano spesso le mura del brolo c’era un giovane cantastorie biondo, pallido, vestito di cenci, che piaceva tanto ai ragazzi e ai bambini, ed era sempre ben accolto dovunque. Veniva dalle basse ed era chiamato il “torototela”.


La radio

La soggezione ai paroni imponeva parsimonia, immobilismo, rinunce d’ogni genere, anche se non più ormai come negli anni più lontani.

A quel tempo il timore dei signori poteva persino imporre alle belle ragazze dei lavorenti o dei castaldi di non apparir troppo belle o troppo ben pettinate, di non indossare camicette o indumenti troppo aggraziati, anche se fatti con le loro mani, per non suscitare severe attenzioni, se non invidia, da parte delle contesse e contessine. Questi timori, questi pudori erano ormai mitigati, ma agivano sempre come voci profonde. Un giorno, quando ancora non vi era la guerra, mia madre decise che era tempo di comperare la radio.

Tutte le sue colleghe l’avevano e anche lei sentiva che la spesa era utile: per sé, per noi figli, per nostro padre. Non era concepibile che un uomo della sua categoria, che tra l’altro si interessava di politica, non avesse la radio. La radio oltretutto gli sarebbe tornata utile anche per il suo lavoro: aveva saputo che vi erano notiziari per gli agricoltori, che inoltre si potevano udire i discorsi del duce e le notizie più diverse, la musica che a mio padre piaceva tanto, quella operistica, il Rigoletto, il Trovatore, la Bohème, viste tante volte all’Arena di Verona e sua segreta passione. Gli argomenti erano convincenti ma altrettanto forte era in mio padre l’opposizione a ogni spesa che desse troppo nell’occhio. Però alla fine si era piegato ai desideri di nostra madre, imponendo come condizione di non farne parola con nessuno. Anzi, la radio l’avrebbe tenuta nascosta, in modo che i signori non venissero a saperlo.




Evelina De Rossi

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